quattro o cinquecento ragazzi tra i venti e i trent'anni, tutti vestiti nello stesso modo - che si suppone essere il modo in cui si vestono i giornalisti in italia - tutti con gli stessi giornali in mano. è una delle prime volte in vita mia che mi rendo conto di essere uno stereotipo, entrata da qualche minuto al teatro pavone di perugia durante l'incontro tra gianni riotta e john lloyd. nascondo l'internazionale cercando di eliminare almeno un segno distintivo. camicie azzurre o a righe. maglioncini. scarpe basse e tendenzialmente comode, ché questo, si sa, è un mestiere che si fa con la suola delle scarpe. luigi mi chiede: ma tu vuoi fare la giornalista? mi sembra strano che non lo sappia. lo sanno tutti. è stupito, forse un po' deluso. io non leggo neanche i giornali, mi spiega. emanuele lo guarda come se fosse un alieno. resistiamo venti minuti e usciamo. all'incontro successivo tony capuozzo non si presenta, ma lo scopro più tardi, ci siamo andati attirati dalle proverbiali occhiaie ma non l'abbiamo aspettato. abbiamo preferito mangiare e poi vedere che succedeva all'incontro sulla stampa universitaria. a parte un paio di relatori, gli altri davano l'impressione di non sapere minimamente come si fa a parlare in pubblico. una ragazza era talmente tesa da non ricordarsi che facoltà frequenta. abbiam riso molto su questa cosa. ma è facile per noi, siamo radiofonici da strapazzo, le chiacchiere sono il nostro pezzo forte, vorrei proprio vedere cosa combineremmo con una telecamera puntata addosso. poi i ragazzi se ne sono andati e io sono rimasta sola col puzzle che pare essere il futuro. vado all'incontro sul giornalismo economico. parlano della crisi delle banche, del G-20. a un certo punto però non possono più ignorare noi, l'esercito in clarks e giacche di velluto, uno dei relatori mi dà una buona notizia, crede nella specializzazione. bene, su questo ci siamo. ma non si va oltre. è chiaro a tutti che il mercato è bloccato, non c'è posto per noi. usciamo in mezzo al delirio per marco travaglio che deve arrivare. una situazione surreale, se vuoi te la racconto in un altro p*** Zero, ché non ha nulla a che fare col giornalismo. ti basti sapere che gli esclusi dall'incontro battevano i pugni sui vetri delle porte. nemmeno ci fossero i beatles.
al mattino successivo do dimostrazione al mondo ancora una volta che non c'è modo di farmi far tardi a qualcosa di improrogabile. non importa se sei barista o minimetrò, non mi farai perdere adrian monk. adrian monk non è quello del telefilm, è il direttore del master di giornalismo dell'università di londra. il master è rivolto a ragazzi di tutto il mondo. afgani, siriani, nigeriani, europei. abbiamo dovuto prenotare per incontrare questo quarantenne biondo e concreto. oltre alle scarpe, ha anche pantaloni e maglietta comodi, sembra voglia dirmi che non si fa solo con le suole questo lavoro. si fa con tutto il corpo. ci mette esattamente 13 minuti a utilizzare la parola che temevo: mission. se siete qui, e se siete intenzionati a fare i giornalisti il vostro obiettivo non è avere una casa con il giardino a quarant'anni e il resto. noi siamo gente che ha una missione. siamo ancora a parlare di vocazione, ma anche su questo se vuoi ci torno in separata sede, Zero.
noi, quelli che hanno prenotato, quelli con lo stesso quadernetto in mano, abbiamo ben altre domande. quanto costa? quanto dura? i vostri ex studenti hanno trovato un buon lavoro? e soprattutto: la vostra scuola ci darà l'accesso all'ordine dei giornalisti italiano? abbiamo quasi tutte le informazioni che abbiamo chiesto. ma quella sull'accesso all'ordine no. è chiaro che a londra ti insegnano esattamente tutto quello che devi sapere per fare il giornalista, ma poi sarà praticamente impossibile tornare a farlo in italia.
adrian monk ci invita ad andare a sentire seymour hersh. e noi sciamiamo da una sala all'altra. ha settantadue anni, scrive per il newyorker, ha scritto per il ny times. ha documentato e scoperto molte cose su abu ghraib, sul vietnam. ha vinto il pulitzer a 33 anni. ha una figlia di quindici anni. ha avuto il tempo di fare praticamente tutto, nella sua vita privata e nella sua carriera. non riesco a non pensare che io non l'avrò, ho un cromosoma X di troppo. ci fa ridere e ci spiega la guerra, berlusconi e bush, l'america. è meravigliosamente asciutto. noi l'amiamo. e lui ci dice che il lavoro dei giornalisti non è amare. lo sappiamo, ma ci fa bene sentircelo dire. a tutto quanto l'esercito, e molto a me. finalmente sento qualcosa che abbia a che fare con il senso del mestiere, qualcosa che abbia significato.
ma qui non si riesce a capire come diavolo ci si arriva, in una settimana di festival. forse non ci si arriva.
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